Circa la Sentenza Definitiva di Seconda Istanza
Emessa dal Tribunale Apostolico in data 1 febbraio 2005 e pubblicata l’11 luglio 2005 nei confronti di P. Andrea D‘Ascanio, O.F.M. Cap.
Il Tribunale di seconda Istanza ha chiaramente mostrato la sua volontà preconcetta di condannare Padre Andrea D’Ascanio nei vari tentativi di portarlo a giudizio senza avvocato difensore o, peggio, con un avvocato d’ufficio. Con questi presupposti si può facilmente intuire come si svolgerà il processo e quale sarà la sentenza.
Dall’esame di tale sentenza si evince l’intenzione di salvare ad ogni costo la figura di S.Ecc. Mons. Molinari Arcivescovo di L’Aquila – dichiarato nella sentenza assolutoria l’artefice e il regista del processo contro padre Andrea D’Ascanio e l’Armata Bianca – e le Autorità della CDF che hanno accolto e sostenuto l’azione di Mons. Molinari.
Esaminiamo il contenuto della sentenza - riportata in colore blu - che così inizia:
“In nomine Domini, Amen!”
“Il giorno 1 febbraio 2005 (…) i sottoscritti Mons. Eduardo Davino, presidente ed istruttore, il rev.mo Mons. Brian Edwin Ferme ed il rev.mo Sabino Ardito S.D.B, giudici (…) hanno emesso la seguente sentenza definitiva in grado di appello nei confronti del rev.do Andrea D’Ascanio accusato di diversi crimini commessi contro le leggi della Chiesa (…).
Questa seconda sentenza di appello è “definitiva”, cioè Padre Andrea D’Ascanio non potrà ricorrere al tribunale superiore, contro il Codice di Diritto Canonico che così detta:
Can. 1628 – La parte che si considera onerata da una sentenza, e parimenti il promotore di giustizia (…) hanno diritto di appellare contro la sentenza avanti al giudice superiore”
“FATTISPECIE: Espletata la previa indagine dagli organi della Congregazione per la Dottrina della Fede, chiamata in causa da diverse denunce, il Promotore di Giustizia, rev. Pier Giorgio Marcuzzi S.D.B., in data 2 giugno 1998, presentò il libello accusatorio al Tribunale Apostolico.”
Cosa intende il codice per “indagine previa”?
Can. 1717 - “Ogniqualvolta l’Ordinario abbia notizia, almeno probabile, di un delitto, indaghi con prudenza, personalmente o tramite persona idonea, sui fatti, le circostanze e sull’imputabilità, a meno che questa investigazione non sembri assolutamente superflua”.
Gli organi della Congregazione della Dottrina per la Fede non hanno espletato nessuna indagine perché, come si evince dalla Sentenza di assoluzione:
1) hanno semplicemente messo agli atti le denunce contrarie a Padre Andrea D’Ascanio che Mons. Molinari aveva sollecitato e raccolto
“La CDF, nell’emettere i provvedimenti cautelari e, in pratica, fin dal processo giudiziario, aveva dato ascolto soltanto agli accusatori, la cui credibilità era fortemente avallata da S.E.R. Mons. Giuseppe Molinari, amico di alcuni dei principali accusatori e, tramite loro, degli altri”. (dalla Sentenza di assoluzione del 27.9.2002)
2) hanno eliminato le testimonianze a favore:
In realtà, il libello di domanda teneva in considerazione soltanto una parte dell'indagine previa, quella "di accusa". Invece, presso la CDF vi era un'altra documentazione "di difesa" (presentata da S.E.R. Mons. Mario Peressin, in data 24 giugno 1997) di cui il Tribunale ha avuto conoscenza formale soltanto in occasione della deposizione come teste di S.E.R. Mons. Mario Peressin (27 marzo 1999). In tale data il Presidente ha indicato al Notaio del Tribunale - P. Ramos, il quale era anche Ufficiale della Sezione Disciplinare della CDF e, in quanto tale, custodiva detta documentazione "di difesa" - d'incorporare tale fascicolo difensivo, di natura pre-giudiziaria, agli atti del processo penale giudizia1e, assieme agli atti "di accusa" provenienti dall 'indagine previa. (dalla Sentenza di assoluzione del 27.9.2002)
3) hanno preparato e fatto firmare ad Alessia Zimei una seconda denuncia , corredata con tutti i canoni del Codice, sulla quale è stato fondato l’impianto processuale.
Questo terzo punto sarà trattato prossimamente, commentando quanto scritto da S.E.Mons. Eduardo Davino circa il fattivo intervento di S.E.Mons. Tarcisio Bertone, allora Segretario della Congregazione della Dottrina per la Fede.
“Espletata una lunga e laboriosa istruttoria, e discussa la causa per le parti in causa, in data 16.04.2002 veniva ammessa la sentenza di primo grado, pubblicata il 27.9.2002, con la quale l’imputato veniva assolto da tutti i delitti a lui imputati: per il delitto di cui al can. 1387, non avendo il tribunale raggiunto la certezza morale, per gli altri capi d’accusa o perché i fatti non sussistono o perché non risultano provati”.
In cinque righe il Presidente Mons. Eduardo Davino – pur concedendo che l’assoluzione è frutto di una “lunga e laboriosa indagine” - liquida i risultati della prima Sentenza assolutoria frutto di quattro anni di intenso lavoro:
“(…) Sono stati interrogati 27 testi di accusa e 13 a favore del P. Andrea D' Ascanio; è stato espletato un accesso giudiziario presso la sede dell'«Armata Bianca» e nel domicilio del P. Andrea D'Ascanio (entrambi a L'Aquila); sono stati interrogati mediante rogatoria, presso i tribunali di diocesi italiane ed ecuadoriane, altri testi di accusa. (…) Il materiale istruttorio (…) occupa più di quattromila pagine.” (dalla Sentenza di assoluzione del 27.9.2002)
L’appello
“(…) Il 30.09.2002, il Promotore di Giustizia ha presentato Appello al Tribunale della Congregazione per la Dottrina della Fede per procedere al nuovo giudizio.”
Il Promotore di Giustizia (Pubblico Ministero) Don Pier Giorgio Marcuzzi, che nulla aveva obiettato alle argomentazioni della Difesa durante il dibattimento, due giorni dopo l’emissione della sentenza assolutoria presenta appello alla stessa Congregazione per la Dottrina della Fede per procedere ad un nuovo giudizio.
Questo appello è illegale – e quindi invalido - perché contrario al già citato canone 1628: “ La parte che si considera onerata da una sentenza, e parimenti il promotore di giustizia (…) hanno diritto di appellare contro la sentenza avanti al giudice superiore”, non avanti lo stesso giudice.
In pratica la Congregazione per la Dottrina della Fede fa appello a se stessa contro una sentenza assolutoria che essa stessa aveva già emesso. Nonostante questa palese incongruenza logica e giuridica l’appello viene accolto, come leggiamo:
“Con Decreto, il 24.10.2002, la suprema Autorità della CDF ha legittimamente costituito il tribunale Apostolico collegiale di seconda istanza, composto da Ecc. Rev.ma Mons. Eduardo Davino, Presidente del collegio, istruttore e ponente, Mons. Brian Edwin Ferme e Rev.do Sac. Sabino Ardito, S.D.B.”
Ma “legittimo” è ciò che è conforme alle leggi. La suprema Autorità della CDF costituisce il Tribunale di seconda istanza “illegittimamente”, perché in aperta contraddizione con la legge, cioè con il già citato canone 1628 del CDC.
Il 04.02.2002, il Promotore di Giustizia, il Rev. Piero Giorgio Marcuzzi, S.D.B. ha chiesto al moderatore di essere esonerato dal suo incarico per motivi di salute. (…) Janusz Kowal, S.J. fu nominato Promotore di Giustizia, il 28.03.2003. (...) Il 9.05.2003 si svolse la concordanza del dubbio durante la quale il Promotore di Giustizia ha accettato in toto il Libello Appellatorio consegnando la sua dichiarazione scritta al presidente.”
Ma anche questo rientra nella “logica” che ha guidato le Autorità che hanno costituito il tribunale Apostolico collegiale di seconda istanza: ignorare totalmente la sentenza assolutoria di 120 pagine emessa dal precedente Tribunale dopo cinque anni di sofferte indagini.
Qui non siamo più in collisione solo con i canoni della Legge ma con quelli della razionalità più elementare. L’unica spiegazione è quella dell’odio – notoriamente irrazionale – che ha mosso chi ha attivato questo processo di appello. Ma perché tanto odio?
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Una sentenza senza fondamenta
Mons. Eduardo Davino sa bene che la precedente sentenza è stata emessa “ex actis et probatis”, cioè dopo che erano stati esaminati minuziosamente i numerosi testimoni, i fatti e le prove. Gli resta da percorrere la strada opposta, basata unicamente sul suo personale giudizio, mai avallato da prove.
Ne consegue una sentenza piena di condizionali, di interrogative che vorrebbero essere retoriche, di espressioni che asseriscono senza nulla dimostrare, di esclamazioni apodittiche che vorrebbero dare per scontato ciò che tale non è: “sentimenti di meraviglia e dispiacere”… “né minor meraviglia, se non sconcertato (sic)”… “inverosimile”… “è davvero incredibile”… “Ritenuta infondata l’ipotesi…” .
Per dare un supporto, almeno teorico, alla sentenza di condanna Mons. Eduardo Davino cerca di appigliarsi al canone 1608:
Ci sembra invece opportuno fare alcune premesse. Recita il canone 1608:
§1. Per pronunciare una qualsiasi sentenza il giudice deve in coscienza avere la certezza morale di ciò che deve decidere mediante sentenza.
§2. Il giudice deve attingere questa certezza dagli atti e da quanto è stato dimostrato;
§3. Il giudice deve invece ponderare le prove secondo la sua coscienza, fermo restando le prescrizioni della legge sull’efficacia di talune prove.
§4. Il Giudice che non abbia potuto conseguire questa certezza, sentenzi che il diritto dell’attore non è chiaro e assolva il convenuto, tranne che non si tratti di una causa che godi il favore del diritto, nel qual caso bisogna pronunciarsi a suo vantaggio.
Mons. Eduardo Davino, facendosi forte di questo canone, ha segnato la sua condanna perché non ha tenuto conto minimamente conto del §2. del canone da lui stesso tirato in causa (“Il giudice deve attingere questa certezza dagli atti e da quanto è stato dimostrato”) in quanto ha rifiutato a priori le conclusioni del primo processo; ha rifiutato di tenere conto delle ulteriori prove date dalle intercettazioni telefoniche; ha ascoltato un solo teste riconosciuto manifestamente falso, come vedremo. Continua la sentenza:
“Due sono i punti, su cui fermare brevemente l’attenzione: il concetto di certezza morale e la discrezionalità del giudice.”
Citando un’allocuzione di Pio XII alla Rota Romana e riportando quanto scrive M.F. Pompedda in “Studi di Diritto processuale canonico” circa “la certezza morale e la discrezionalità del giudice” - alle quali dedica ben due delle complessive 12 pagine della sentenza – Mons. Eduardo Davino si ritiene legittimato ad emettere la sentenza di condanna nei confronti di Padre Andrea D’Ascanio senza “dover attingere la certezza dagli atti e da quanto è stato dimostrato” nel precedente processo assolutorio.
Mons. Davino tenta quindi di demolire l’ipotesi del “complotto” sostenuta dalla precedente sentenza assolutoria:
L’ipotesi del complotto
“La sentenza di primo grado, come pure la difesa del patrono in questo grado di giudizio, partono dal presupposto che la causa in esame, nonché quella introdotta successivamente al Tribunale penale dell’Aquila, siano frutto di un medesimo disegno criminoso inteso a distruggere la figura del convenuto”.
Il “presupposto” di “un medesimo disegno criminoso inteso a distruggere la figura del convenuto” è dimostrato con testimonianze e fatti che non possono essere smentiti e che perciò hanno portato all’assoluzione, come dimostrato nella prima sentenza assolutoria e come ribadiremo in questa sede.
“Meraviglia fra l’altro, e ci spiace notarlo, che la sentenza di primo grado, già nella fattispecie, che dovrebbe caratterizzarsi per la presentazione dei soli fatti di causa, senza anticipare giudizi, affermi già che la parte convenuta “…era vittima di un complotto ordito da alcuni degli accusatori”.
Ci saremmo aspettato che il relatore dimostrasse la infondatezza del “presupposto” per scalzare alla radice la sentenza di assoluzione; invece esterna sentimenti di “meraviglia e dispiacere” perché la sentenza, già nella fattispecie, dichiari che la parte convenuta era “vittima di un complotto”. Perché tanta “meraviglia” se il complotto c’è stato ed è stato dimostrato?
Le prove del complotto
Dagli interrogatori I e II di Don Gabriele Nanni nel primo processo ecclesiastico:
Presidente: Siamo stati informati da persone denuncianti che a un certo punto ci fu una certa attività istruttoria da parte di persone ex-membri dell’Armata Bianca che per fornire prove - immagino a questa Congregazione - si misero a trascrivere nastri e omelie di P.Andrea la cui ortodossia poteva essere dubbia. Di questo “pool” lei cosa ci potrebbe dire?
Gabriele Nanni: (…) L’attività c’è stata…
Presidente: Però lei non ha avuto nessun intervento?
Gabriele Nanni: Mi è capitato di leggere, mi chiesero di correggere (… )
Presidente: In dovere di lealtà nei suoi confronti e per accertare la verità, devo dirle che ieri è stata qua la Sig.ra Manfredi e ci ha raccontato che il 24 o il 26 novembre 1996 in cui lei mise per iscritto alcune cose contro P.Andrea, quello sarebbe stato perché lei l’avrebbe chiamata e che mise per iscritto quello stesso giorno.
Gabriele Nanni: Non ricordo il particolare, perché l’episodio di Mirca Manfredi era molto marginale rispetto alle altre cose.(…) Sì, è possibile perché era nel momento in cui si collegavano tante cose, allora c’è stato un momento di congiunzione di queste persone. Io sono stato in qualche modo involontariamente il centro di queste persone.
Gabriele Nanni: Il mio ruolo è stato marginale nel senso che ho raccolto delle testimonianze perché sono venute da me.
Presidente: In realtà voi sete andati lì un po’ per… e questo confermerebbe se non la tesi del complotto sì la tesi del pool…
Gabriele Nanni: Domenico Pelliccione cercava… io proprio come sostegno, andavamo tutti insieme così… (…)
Presidente: Non è che sembra, realmente cercavate qualcosa, quello è vero. Che andavate a cercare qualcosa, quello è il fatto.
Gabriele Nanni: Questo senz’altro…”
Gabriele Nanni dichiara di essersi trovato coinvolto nel pool “involontariamente”, ma leggiamo nelle deposizioni:
1. Teste Pierina Manfredi: Ho deciso di scrivere (la denuncia) quando ho avuto una telefonata di Gabriele Nanni spiegandomi come Mons. Molinari stava raccogliendo testimonianze per fare luce circa P.Andrea. L’ho scritto quella sera stessa della telefonata, il 24 novembre 1996. Credo averlo poi consegnato ad Alessia Zimei.
Pierina Manfredi dichiara quindi che il 24 novembre - cioè poche ore dopo il suo arrivo a L’Aquila, Gabriele Nanni le ha telefonato per chiederle di scrivere la denuncia.
2. Presidente: “… è iniziato questo lavoro un po’ come il “pool” mani pulite…Chi facevate parte di questo lavoro?
Teste Anna Rita Bellisari: Alessia, Gabriele, la Mamma di Alessia, Domenico Pelliccione e io.” (…)
Presidente: “Intervenne un altro per correggere l’italiano o per vedere quello che aveva scritto la Ndoja?
Teste Anna Rita Bellisari: Sì, lo facemmo io e Gabriele”.
Don Gabriele Nanni non è del tutto estraneo alle telefonate intimidatorie fatte al dott. Gianni Garuti di Modena, che lui dichiara di aver già avvicinato in precedenza:
3. “Quando (il dr. Gianni Garuti) dovette ritornare a Roma per firmare, so per certo, che ricevette altre telefonate, ma non mi disse da chi, ma si ripeteva la medesima intimidazione, che se avesse cambiato il suo comportamento, avrebbe riferito tutta la faccenda al nostro Vescovo. Queste nuove telefonate, lo costrinsero a rispondere come al primo colloquio (perché, non lo fecero solo firmare, ma gli rifecero di nuovo tutte le domande, per avere la certezza delle sue risposte, anzi ebbero di più perché si sentì il dovere, o la coscienza, di rendere certe anche quelle domande alle quali era stato timoroso o insicuro). Quando me lo disse per telefono, aggiunse anche: “Credo di aver peggiorato la situazione. Chiedi a P.Andrea, se può, che mi perdoni”. (Dalla lettera della sig. ra M. Matteucci a Padre Andrea D’Ascanio).
Gabriele Nanni è stato circa tre mesi a casa Zimei dove, per dichiarazione di Enrico Zimei “questi argomenti erano stati la materia principale della conversazione nostra …”
E che lo scopo di queste conversazioni fosse cercare accuse contro Padre Andrea per denunciarlo, lo dichiara ancora la stessa Alessia Zimei: “all’inizio del ‘97 …ancora ci davamo tanto da fare per trovare testimonianze”.
E aggiunge: “all’inizio del ‘97 avvenne un incontro con un giovane che fa parte dei Cavalieri del Santo Sepolcro e lui mi disse tu potresti fare una testimonianza…” (…) e disse a mio fratello: “dì a tua sorella che deve scrivere queste cose…” Venne Francesco e disse “guarda che devi scrivere ‘sta cosa…”
Riportiamo quanto scritto nella sentenza di assoluzione: “Lì si venne a costituire un "pool" per accusare il P. Andrea D'Ascanio, come è stato riconosciuto (con qualche reticenza) dai protagonisti in occasione delle loro deposizioni come testi. Casa Zimei fu frequentata, più o meno intensamente, dal Sig. Domenico Pelliccione, dalla Sig.ra Pierina Mirka Manfredi, dalla Dott.ssa Anna Rita Bellisari, ecc.: tutti ex-membri dell' «Armata Bianca». Con la collaborazione di Alessia, dei suoi fratelli e di Don Gabriele Nanni furono redatte alcune accuse e trascritti diversi nastri contenenti interventi orali del P. Andrea D'Ascanio, ritenuti eretici. Tale materiale fu consegnato alla CDF da S.E.R. Mons. Giuseppe Molinari e, direttamente, da alcuni dei denuncianti, in particolare dalla Dott.ssa Alessia Zimei, talvolta accompagnata dalla mamma, e dal Sig. Domenico Pelliccione. (p. 15)
“Il complotto è un intrigo rivolto copertamente a danno di enti o persone”: perché S. E. Mons. Eduardo Davino esterna “meraviglia e dispiacere” se la sentenza assolutoria del Tribunale di Prima Istanza parla di “complotto”? E in che altro modo si potrebbe definire quello che hanno fatto i testimoni di alcuni dei quali abbiamo riportato le dichiarazioni?
Dobbiamo concludere:
- o Mons. Eduardo Davino non ha preso neanche visione della sentenza di primo grado
- o ne ha preso visione e allora egli impugna la Verità conosciuta:
“Né minor meraviglia, se non sconcerto (sic), può provocare il non certamente richiesto giudizio, su S.E. Mons. Giuseppe Molinari, Arcivescovo dell’Aquila, le Autorità della Congregazione per la Dottrina della Fede e di altri dicasteri della Curia Romana.
Si legge infatti nella sentenza: “…in realtà le prime vittime del complotto contro Padre Andrea D’Ascanio sono state S.E.R. Mons. Giuseppe Molinari e le Autorità della C.D.F. e di altri Dicasteri della Curia Romana, tratte in inganno dagli orditori del complotto e dalle persone da loro strumentalizzate come accusatrici”.
Mons. Eduardo Davino – aggiungendo alla “meraviglia” lo “sconcerto” - dichiara finalmente le motivazioni di questo illegittimo processo di appello: Mons. Molinari e le Autorità della C.D.F. e di altri Dicasteri non hanno gradito che un Tribunale da loro stessi attivato abbia ufficialmente dichiarato che sono stati “tratti in inganno”.
“In realtà una attenta lettura degli atti mostra quanto sia inverosimile una ipotesi del genere”
Come può Mons. Eduardo Davino definire il complotto “inverosimile”, cioè privo di qualsiasi rispondenza alla realtà, dopo quello che risulta dagli Atti del processo e di cui abbiano riportato appena qualche brano?
E’ una delle tante asserzioni non dimostrate, ma date come inconfutabili dal Presidente del tribunale di seconda istanza.
E di quale “attenta lettura degli atti” parla? Ha realmente letto “attentamente” le 4.000 pagine del processo che hanno portato all’assoluzione di Padre Andrea D’Ascanio?
Da come si esprime dobbiamo dedurre che non ha esaminato neanche le 120 pagine della sentenza di assoluzione:
“Né vale far ricorso, alla fine, ai “poteri ipnotici” di Don Gabriele Nanni per giustificare come mai le due testimoni fondamentali, A. Z. e G. P., le quali godono di buone testimoniali, abbiano accettato di dire, anche sotto giuramento, delle falsità davanti alle autorità ecclesiastiche”.
Poteri ipnotici? Chiamiamoli come si vuole: dagli atti del precedente processo risulta che la prima ondata di testi fu contattata da Gabriele Nanni che “apre gli occhi” ai vari testimoni perché possano “vedere” finalmente chi è P. Andrea cfr
http://www.truthaboutpadreandreadascanio.net/don-gabriele-nanni-ita.php :
“Le due testimoni fondamentali”
In sede di Appello, inoltre, l' unico teste che viene interrogato è in realtà, la Sig.ra Ciancia, e su di essa il Promotore di Giustizia crede di poter costruire la "novitas" dell'intero impianto accusatorio in secondo grado; ma la teste Ciancia, come emerge chiaramente da tutta la documentazione prodotta, si rivela totalmente inattendibile, avendo ripetutamente e, per di più, palesemente, mentito tante volte. Nel corso dell’interrogatorio, però, emerge ancora una volta la inattendibilità della teste che viene perciò rimpiazzata da altre due testimoni ripescate nel primo processo canonico nell’ambito del quale erano state già valutate non credibili.
1. Alessia Zimei
Abbiamo già trattato di questa teste “fondamentale” nella terza parte di questo sito e ad esso rimandiamo (www.truthabaoutpadreandreadascanio.net).
In questa sede facciamo solo una sintesi su questa ”teste fondamentale” per evidenziare la mutabilità delle tante accuse che alla fine lei stessa smentisce, come vedremo.
Nel 1990 conosce Gabriele Nanni che è a L’Aquila per completare i suoi studi di teologia con l’Armata Bianca. Nasce tra di loro una profonda relazione sentimentale che si chiude nel 1993, quando Gabriele Nanni decide di entrare nel noviziato della Pro Deo et Fratribus.
Da allora partecipa con impegno generoso alle iniziative dell’Armata Bianca e nel 1996 partecipa ad una missione di tre mesi tra i bambini dell’Ecuador. Nel suo ultimo fax dell’ottobre 1996 così si rivolge a Padre Andrea:
“Pà mio carissimo, ti comunico che la riunione di oggi è andata a meraviglia. La lettura del tuo fax è stata una specie di sollievo per ognuno. Tutti sono molto contenti (…) Oggi giocherellando con la calcolatrice ho fatto il conto di quanti bambini ho incontrato sola soletta. Indovina quanti sono? 28.682 (…). Ti abbraccio forte forte come all’aeroporto. Alessia”
I parenti, temendo che ella voglia dedicarsi per sempre all’Armata Bianca, durante la sua permanenza in Ecuador fanno della loro casa - come abbiamo appena letto nelle deposizioni di più testimoni - il centro degli incontri di quanti, per vari motivi, non hanno in simpatia Padre Andrea D‘Ascanio.
Tra questi emerge Gabriele Nanni che, ormai alle soglie del sacerdozio, dalla casa di teologia in Slovacchia è stato retrocesso a quella di probandato di Civitella del Tronto e di questo dà la colpa a Padre Andrea D’Ascanio che, a suo giudizio, avrebbe parlato male di lui. A Civitella viene avvicinato più volte dai membri del “comitato” e lui prepara la sua lunga lista delle accuse che farà firmare da Alessia Zimei.
Quando questa torna dall’Ecuador decisa a ripartire dopo 15 giorni, i parenti organizzano un suo incontro con Gabriele Nanni e - “…alla fine dopo ore che parlavamo, che non ero mai convinta” (dall’interrogatorio) – questi la convince a sottoscrivere e a presentare al Vescovo Giuseppe Molinari de L’Aquila la lista delle 21 accuse che lui ha preparato e che i tecnici della Congregazione per la Dottrina della Fede, useranno per dare inizio al primo processo ecclesiale.
A questo riguardo, leggiamo nella sentenza assolutoria a p.12
“Dopo aver passato quasi tutta una giornata con Gabriele Nanni nel seminario in cui abitava….. gli occhi di Alessia Zimei si “aprirono” e scoprì con stupore che il Padre Andrea D’Ascanio aveva attentato gravemente alla sua castità in diverse occasioni per lo più, spesso, durante la confessione sacramentale…”
Ma, per quanto numerose, queste 21 vaghe accuse non corredate da alcuna prova non garantiscono l’esito certo di una condanna. Perciò Alessia Zimei venne accompagnata da S. E. mons. Tarcisio Bertone, Segretario della CDF, che compila e le fa sottoscrivere una circostanziata denuncia, come preciseremo prossimamente su questo sito.
E’ interessante notare che Alessia Zimei farà ancora differenti dichiarazioni nel Tribunale Penale dell’Aquila, anche questo verrà precisato quando tratteremo degli altri processi penali e civili subiti da Padre Andrea D’Ascanio.
Questa teste dalle multiformi accuse era stata ben identificate dal Tribunale di prima istanza che aveva assolto Padre Andrea D’Ascanio, ma Mons. Davino ne fa una delle due colonne su cui fonda la sua condanna, nonostante quello che ella stessa dichiara in una intercettazione telefonica:
(Nastro 1 Telefonata n. 7 tra Rosa Ciancia e Alessia Zimei 13 12 1999 ore 15,41):
Alessia: “io ritengo che le cose che io so o che ho visto, a loro (ai carabinieri) non gliene importa niente perché sono le solite cose che hanno fatto per obbedienza o cose del genere. Io di cose gravi in termini …come intendeva quello, io non ho nulla da dire su cose di questo genere… quindi…”
…quindi, la “testimone fondamentale”, che gode “di buone testimoniali”, è una bugiarda. In un Tribunale corretto sarebbe stata sufficiente questa dichiarazione di Alessia Zimei, ufficialmente registrata, per far crollare il processo. Ma per i giudici del Supremo Tribunale Ecclesiastico queste intercettazioni telefoniche non sono degne della minima considerazione. Forse perché troppo solari.
2. Gabriella Parisse
“Come mai – si chiede Mons. Davino nella sua sentenza di condanna – le due testimoni fondamentali, A. Z. e G. P., le quali godono peraltro di buone testimoniali, abbiano accettato di dire, anche sotto giuramento, delle falsità davanti alle autorità ecclesiastiche?”.
In verità, da quanto risulta dagli atti, hanno detto delle falsità anche davanti alle autorità civili.
Per quanto riguarda Gabriella Parisse, “ha accettato di dire delle falsità” per ottenere una copertura ecclesiale per quanto aveva fatto con alcune suore di Madre Teresa di Calcutta. In sintesi:
Gabriella Parisse, conosciute le Suore di Madre Teresa da poco venute a L’Aquila, esprime a Padre Andrea D’Ascanio, suo direttore spirituale, il desiderio di entrare tra di loro. Questi le fa una lettera di presentazione e la candidata novizia passa una settimana nella casa di formazione delle suore in Roma. Dopo questa breve esperienza la Parisse accantona l'idea di farsi suora e, invece di entrare lei nella struttura di Madre Teresa, fa uscire dalla casa dell'Aquila Suor Valeria Frendo, maltese, e poi altre due consorelle con le quali decide di dar vita ad una nuova Congregazione di sua creazione.
Padre Andrea D’Ascanio, dopo averne parlato con l'Arcivescovo Mario Peressin, dice alla Parisse di far rientrare le suore nell’istituto o di rimandarle a casa. La proposta viene rifiutata e si chiudono i rapporti.
Ma Gabriella Parisse viene a trovarsi in una situazione difficile, dovendo giustificare e regolarizzare anche su un piano civile la posizione di queste donne di altra nazionalità che risultano ufficialmente sue ospiti. Ha quindi bisogno di un riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa e trova piena accoglienza nel nuovo Arcivescovo Mons. Giuseppe Molinari. Nascono così le “Apostole della Pace”.
Ma tutto ha un prezzo. A pagarlo è Padre Andrea D’Ascanio contro il quale la Parisse è costretta a testimoniare in più tribunali, come ella stessa dichiara dinanzi ai giudici di L’Aquila:
Gabriella Parisse: Io sono stata invitata dal Vescovo a fare la testimonianza.
Avv. Stilo: Da quale Vescovo?
Gabriella Parisse: Molinari (…)
Avv. Stilo: Dunque, lei è stata invitata da Molinari a presentarsi spontaneamente (…)
Gabriella Parisse: Sì
Questa dichiarazione della Parisse dovrebbe rispondere alle perplessità di Mons. Eduardo Davino.
“Mentre il patrono del P. A. D’Ascanio si rifà nella sua difesa alle intercettazioni telefoniche ordinato (sic) dalla stessa Magistratura italiana per suffragare la tesi del complotto”.
Effettivamente il patrono aveva presentato una lunga lista di telefonate, selezionate tra le oltre 18.000 intercettate dai Carabinieri, dalle quali risulta in modo inconfutabile la organizzazione del complotto ed emergono i nomi dei responsabili: Mons. Molinari e i suoi collaboratori Padre Giacobbe, Domenico Pelliccione, Rosa Ciancia… i quali, non sapendo che i loro discorsi venivano registrati, attestano e descrivono senza veli la tessitura del complotto. Quale prova più “probante” delle intercettazioni telefoniche registrate su disposizione della Magistratura? Ma il Tribunale non è d’accordo, ed espone la sua contrarietà con “due osservazioni” che “si impongono”:
“Al riguardo due osservazioni si impongono. Innanzitutto non si vede la logicità del ragionamento della sentenza. Logica infatti vorrebbe piuttosto la conclusione opposta che cioè le parti offese, pur in presenza delle prevedibili conseguenze penali di una falsa accusa, nella piena consapevolezza di dire il vero non hanno temuto di affrontare il giudizio in un’aula penale”.
In realtà Mons. Eduardo Davino si rifiuta di prendere in considerazione le telefonate intercettate dai Carabinieri e - per non affrontare l’ostacolo - mette in campo “due osservazioni” che “si impongono”: “la logicità del ragionamento della sentenza” e l’eroicità delle “parti offese”.
E con la coscienza di Giudice pacificata da queste considerazioni, si prepara ad emettere la sentenza di condanna.
Si continuerà ad esaminare le complessive 12 pagine della sentenza, evidenziando quante di esse sono state utilizzate per elencare – per ben due volte – i capi d’accusa di Padre Andrea D’Ascanio; quante per citazioni che potessero giustificare l’arbitrio della condanna; quante (solo tre) inerenti alla valutazione dei fatti.